La scultura ribelle di Louise Nevelson

1 Aprile 2013


Un obiettivo chiaro, nella mente: fin da quando era ragazza. Essere artista. Contro ogni genere di pregiudizio, grave zavorra che faceva del suo essere donna condizione di netta inferiorità. Una difficoltà abbattuta grazie alla più ferrea delle volontà, ma soprattutto in virtù di un estro e una sensibilità che hanno lasciato il segno. Louise Nevelson è tra le regine incontrastate dell’arte moderna. Il suo regno, questa primavera, è la Città Eterna.

Inaugura il 15 aprile la grande retrospettiva che la Fondazione Roma ospita a Palazzo Sciarra: un viaggio nell’immaginario di un’artista controcorrente, che arriva dopo gli omaggi a Niki de Saint Phalle e Georgia O’Keeffe. Ideale quadratura di un cerchio che ha puntato il compasso sul ruolo della donna nell’arte del Novecento, concentrandosi su personalità di eccezionale maturità individuale e straordinaria potenza espressiva.

Una plastica seducente quella delle sculture di Nevelson, magnifica nell’evoluzione di un linguaggio che prende lo slancio dalle intuizioni Dada e futuriste sul tema dell’objet trouvé. Arrivando a delineare ben presto uno spazio creativo di grande originalità. Nei suoi assemblaggi monocromi ogni frammento perde la propria identità di oggetto, in favore della nascita di un vero e proprio pattern tridimensionale.

In mostra, fino a fine luglio, tutte le diverse stagioni attraversate dall’artista: dagli esordi nel campo della terracotta al periodo dei complessi “assemblage” in legno; fino allo splendore delle grandi composizioni degli Anni Settanta e alle opere della consacrazione. Una parabola artistica e umana che si chiude nel 1988: e che fa di Nevelson, figlia di immigrati ucraini fuggiti negli Stati Uniti, una splendida icona del “secolo breve”.