Il Cinquecento a Brescia. Da Savoldo al Romanino

4 Marzo 2014


È la storia di una passione antica, sensibilità coltivata con garbato riserbo nel corso dei secoli. È la vicenda di un collezionismo facoltoso, attento e rigoroso; pratica silenziosa che ha permesso di raccogliere e conservare – in una città per tradizione nobile e ricca – la memoria di una stagione artistica feconda, nell’originale declinazione locale di stili e linguaggi dal sapore schiettamente internazionale.

Brescia si riscopre piazza tutt’altro che marginale o periferica nell’atlante dell’arte classica italiana, grazie alla mostra che fino al primo giugno rivela a Palazzo Martinengo i segreti di alcune tra le più prestigiose collezioni private della città. Cento tele di grandissimi maestri, per la prima volta esposte insieme al pubblico – e alcune mostrate in anteprima assoluta – a coprire un arco cronologico che va dal XV al XVI secolo, con particolare attenzione alla felice stagione del Cinquecento lombardo.

Magnificamente articolato il Rinascimento bresciano, idealmente rappresentato in mostra dalle tavole di Vincenzo Foppa: figura cardine per la storia dell’arte del Quattrocento, artista capace di mediare la poetica tardo-gotica di matrice nordica con le innovazioni stilistiche in arrivo dalla Toscana. Alle sue prove si affiancano quelle del Moretto e del Savoldo – determinanti i suoi notturni per la formazione di Caravaggio – fino a quelle del Romanino.

Terra di confine il bresciano, che risente anche in arte dei flussi e degli scambi tra la Repubblica di Venezia e Milano. Così gli echi tizianeschi e mantegneschi si evolvono in soluzioni di spiccata e fascinosa originalità, fino ad arrivare – in tarda età barocca – alla nascita di fenomeni si chiara e manifesta novità. Si arriva così alla parabola artistica di Giacomo Ceruti, il Pitocchetto, grandissimo innovatore nel campo della pittura di genere.

[nella foto: Moretto da Brescia, Venere con Amorino]