La città che sale secondo Marco Petrus. Alla Triennale

29 Aprile 2014


Negli occhi restano gli svettanti caleidoscopi di Umberto Boccioni e le clamorose utopie di Antonio Sant’Elia, entrambi a loro modo visionari nell’immaginare le città di un domani per noi divenuto presente incombente. Ad aggiornare quell’idea di città è Marco Petrus, che sfoglia alla Triennale di Milano le pagine del suo Atlas , raccolta di immagini e suggestioni sospese tra realtà e finzione, osservazione e immaginazione.

In mostra da queste ore e fino al prossimo 2 giugno non vanno, banalmente e semplicemente, sguardi sulle città. Ma una vera e propria filosofia del paesaggio urbano, declinata nel candore di una pittura piana e rigorosa; una grammatica del costruito e del costruibile, con il dettaglio architettonico a diventare chiave di lettura privilegiata. Nell’astrazione più totale dal contesto sociale e sociologico; nella libertà assoluta dagli schemi preconcetti.

L’annullamento di ogni riferimento alla vitalità del tessuto cittadino – dal traffico pedonale a quello delle auto, dai cartelloni pubblicitari ai fili della corrente elettrica – ha l’effetto catartico di un medium capace di spegnere l’interruttore del tempo: erigendo, in uno ossimoro apparente, monumenti immortali a quella stessa frenetica energia che pure sembra essere negata. E che si trova invece esaltata nella rarefazione della linea e di una tavolozza spumeggiante.

Molto verte su Milano: si scorgono nelle trenta tele esposte in Triennale il Pirellone di Giò Ponti e il nuovo Palazzo della Regione, i palazzi liberty di Via Mozart e la Camera del Lavoro. Ma i dettagli in fondo si annullano omologandosi ai frammenti di Helsinki e Napoli, Londra e Marsiglia; in un puzzle affascinante che compone – anche grazie all’impatto di un allestimento felicemente aggressivo, in stile wunderkammer – la cartolina di un’unica immensa città. Forse non così immaginaria.