A Metz, l’avventura del colore raccontata dal Centre Pompidou

1 Aprile 2018


Sin dalla sua creazione negli anni Settanta, il Centre Pompidou ha allacciato uno stretto rapporto con uno degli elementi fondamentali dell’espressione artistica. Il colore, infatti, fu utilizzato in modo rivoluzionario da Renzo Piano e Richard Rogers come codice visivo per la “lettura” dell’ormai iconico museo parigino.
Addentrandosi nella collezione del Pompidou, la presenza del colore non smette di farsi avvertire in tutta la sua carica, sensoriale ed emotiva. Al punto che ora una selezione di opere – una quarantina in tutto, scelte per la loro rappresentatività di stili e movimenti – raccontano appunto L’avventura del colore a Metz, nella seconda sede francese del celebre museo.

L’esposizione organizza e presenta in maniera inedita le opere già parte del patrimonio dell’ente a Parigi, orientando il percorso attraverso una trattazione tematica del “soggetto colore”. A farla da padrone sono naturalmente i sensi, sollecitati da tinte e cromie che, di volta in volta, veicolano emozioni, la realtà materiale del mondo o, ancora, quella spirituale della “pura” pittura.
Da Vassily Kandinsky a Matisse, fino a Sam Francis, il rapporto tra artisti e colore ha in effetti vissuto più di un’evoluzione.

Si pensi soltanto che è solo nel 1810, con le teorie sul colore di Goethe, che questo elemento emerge in tutta la sua autonomia rispetto agli altri “strumenti” a cui l’artista poteva ricorrere per esprimere la propria creatività. Già un secolo dopo, Matisse vede nel colore il mezzo per raggiungere una totale liberazione, dalla rappresentazione verosimile e dalle regole a cui questa è sottoposta, dando vita a quei “papiers découpés” in cui il ritmo, l’alternarsi di colori trasmettono perfettamente il senso di gioia e libertà provato dall’artista francese.

Giunti alla metà del Novecento, Yves Klein arriverà a dichiarare che “i colori sono esseri viventi, individui molto evoluti che si integrano con noi come con tutto. Sono i veri abitanti dello spazio“.
Difficile dargli torto, considerando che già nei successivi anni Sessanta le installazioni/sculture al neon del minimalista americano Dan Flavin riusciranno proprio in questo intento, dimostrando che il colore può creare veri e propri “campi di energia” attorno a sé e, così, creare nuovi spazi – psicologici – per la nostra visione.