Femminilità e femminismo. L’arte di Suzanne Lacy a Milano

22 Novembre 2014


Tutto parte da un video girato esattamente quarant’anni fa. Un gigantesco paio di pantaloni, icona di virilità, è conteso da due donne: che si strattonano, si scontrano, si litigano quell’oggetto che nella sua banalità diventa simbolo di uno status di potere e privilegio. Non può essere di entrambe, a meno che non si abbraccino e non decidano di calzarlo insieme, unite in un solo corpo. Basta forse questo lavoro a significare in modo compiuto la poetica di Suzanne Lacy.

C’è anche questo epocale Construction of a Novel Frankenstein  nella mostra che il Museo Pecci dedica fino al 6 gennaio, nel suo spazio milanese, all’artista americana; eroina dei movimenti di emancipazione della donna e figura di primo piano per la scena femminista degli Anni Settanta. È arte sociale quella di Lacy, radicale e politica; arte che affronta di petto questioni irrisolte e drammaticamente attuali.

Travalica i confini dell’arte in senso stretto e sconfina nel reportage giornalistico, fedele a schemi linguistici che si affermano proprio in quel periodo, il progetto Prostitution Notes , viaggio in una Los Angeles impietosa, testimone delle feroci e brutali condizioni di vita delle sue prostitute; gli schemi dell’informazione ritornano in Mourning and In Rage , gigantografie delle immagini che ritraggono i sit-in di protesta contro le forze del’ordine, incapaci di porre fine – si era nel 1977 – ad una terribile ondata di omicidi a sfondo sessuale. A danni, ovviamente, di donne.

Ma l’intervento forse più forte dei tanti presentati a Milano, è Thee Weeks In May , performance che ha visto Lacy apporre un tag rosso con la scritta rape  nei luoghi della sua città teatro di stupri e aggressioni. Arrivando alla costruzione di una mappa dell’orrore, con le lettere scarlatte a indicare come monito una nuova colpa, incancellabile, sbattuta sul volto dell’intera comunità. Scossa nel profondo, richiamata alle proprie responsabilità collettive.