L’eredità artistica di Rubens nei secoli

23 Gennaio 2015


Domani aprirà ufficialmente le porte al pubblico Rubens and His Legacy: Van Dyck to Cézanne, grande mostra ospitata dalla Royal Academy of Arts di Londra fino al 10 aprile. Una retrospettiva dedicata al rapporto tra il più influente pittore fiammingo – Pieter Paul Rubens, nato nel 1577 – e artisti che, partendo dalle sue mosse, sono a loro volta diventati tra i maggiori esponenti di stili e scuole successive.

Nomi anche distanti, per tempo e collocazione geografica, rispetto al pittore a cui vengono adesso accostati: se possiamo legittimamente indovinare la presenza di opere di Van Dyck e persino Delacroix, in mostra, potrà forse sorprendere il grande pubblico trovare esposti anche artisti strettamente contemporanei, da Cézanne fino a Klimt e Picasso.
Con oltre 160 opere, la mostra copre in effetti un arco di tempo notevole, che parte dall’epoca in cui ha vissuto Rubens per estendersi fino al Novecento. Ogni dipinto, stampa o disegno esposto, però, è stato selezionato per un chiaro debito artistico nei confronti del pittore fiammingo.

Tra i più prolifici – e richiesti – artisti della sua epoca, l’opera di Rubens godeva di fama internazionale già quand’era in vita: elencare i suoi numerosi committenti e mecenati significa di fatto censire i potenti d’Europa, dalle famiglie reali ai membri della Chiesa. In un’epoca in cui viaggiare era sì possibile, ma di certo non così immediato – ed economico – come ai nostri giorni, a 23 anni Rubens aveva già lasciato Anversa per Mantova – con una tappa intermedia a Venezia, patria del tonalismo veneto e quindi di Tiziano e Veronese. Nei successivi otto anni percorrerà l’Italia in lungo e in largo, acquisendo una conoscenza del Rinascimento italiano di primissima mano, ovvero aggiudicandosi un vantaggio notevole su tutti i pittori fiamminghi che dovevano invece studiare i colleghi mediterranei su riproduzioni.

Da questi viaggi, Rubens porterà nella sua opera la ricca pennellata, il senso della monumentalità e il dinamismo nella composizione dei soggetti, ma soprattutto un senso di vitalità che è riduttivo definire “realista”. Perché i rossori sulle guance di impudiche dee, i muscoli tesi dei cavalieri nelle battute di caccia sono più veri del vero, nel loro erotismo come nell’eroicità: sono carne e sangue, sono l’espressione artistica di cuori pulsanti e passioni ardenti che nella vita sociale non affiorerebbero, stretti da corpetti attillati e bustini rigidi.
Saranno queste qualità proprie della sua pittura, il suo vitalismo che solo dal vivo – appunto – può essere pienamente apprezzato, ad aver ispirato nei secoli diverse generazioni di pittori: dal suo assistente Van Dyck a Boucher, nel Settecento, dai romantici Delacroix e Constable all’impressionista Manet, fino a un Picasso attivo 300 anni dopo la scomparsa di Rubens. C’è un perchè, se si dice che l’arte conferisce l’immortalità.