Sulle macerie dell’URSS: arte “oltrecortina” in mostra a Bologna

22 Febbraio 2014


Vent’anni sono un lasso di tempo sufficientemente ampio per lasciare sedimentare le polveri eteree di una epocale rivoluzione non solo politica, ma soprattutto sociale e culturale. Per poter dunque riflettere su ciò che è stato e su come questo viene percepito oggi che il mondo è cambiato. Arriva dunque al momento giusto, a vent’anni dal collasso dell’URSS e nei giorni caldissimi delle nuove tensioni in Ucraina, la mostra che fino al 16 marzo censisce al Museo Archeologico di Bologna nomi, movimenti e situazioni dell’arte contemporanea in area ex-sovietica.

Compito non semplice quello spettato a Marco Scotini, curatore con il compito – l’evento è stato lanciato in occasione dell’ultima ArteFiera – di dialogare con alcune tra le più importanti collezioni private d’Italia: scovando all’interno delle diverse raccolte i pezzi di un mosaico utile a fotografare una scena in febbrile e costante rinnovamento. Il risultato offre, pur nella sua inevitabile e necessaria parzialità, un’ottima sintesi. Quasi pedagogica nel restituire con lucidità tensioni ed emozioni di artisti che spaziano dall’area balcanica fino alla Russia più profonda.

Non mancano i grandi nomi. Rappresentati da opere cardine della loro carriera. Effetto straniante nello statuario del museo per il celeberrimo Home to go  dell’albanese Adrian Paci, figura in gesso di un novello Cristo che al posto della croce porta in spalla il tetto di una casa, icona del dramma dell’emigrazione forzata; violenta la denuncia del Lips of Thomas  di Marina Abramović, documentazione della famosa performance che ha visto l’artista slava incidersi il corpo.

Si passa dalle sculture di Pawel Althamer alle installazioni minimali del giovanissimo Petrit Halilaj; dagli ironici video antimilitaristi di Artur Zmijewski a quelli di Mircea Cantor, dalle fotografie di Igor Grubic alle poetiche performance di Said Atabekov, con il dialogo tra le diverse anime di un’area dalla sterminata ricchezza culturale. Arrivando infine al senso di spaesamento del Silence Please  di Roma Ondak: la sedie di un custode, la giacca appesa allo schienale, è accostata a un muro del museo. Senza che nessuno la presidi: monito inefficace che traduce con sarcasmo un ideale vuoto di potere e valori. Bandiera di anarchia nichilista.

[nella foto: Roman Ondak – SilencePlease, 2004. Collezione Enea Righi, Bologna]