Il Rubin Museum of Art di New York ospita fino al prossimo 2 febbraio la prima mostra dedicata al rapporto del pittore italiano Francesco Clemente con l'India, con le diverse culture e tecniche artistiche apprese nei suoi numerosi viaggi e rielaborate già durante gli anni della Transavanguardia.
Il Rubin Museum of Art di New York, istituzione museale da sempre attenta alla produzione artistica del continente indiano e dell’area himalayana, ospita fino al prossimo 2 febbraio la prima mostra dedicata alle opere “indiane” di Francesco Clemente, pittore più noto in patria come membro della Transavanguardia.
Per Francesco Clemente: Inspired by India, la curatrice Beth Citron ha raccolto in un’unica sede circa venti opere, selezionate appunto per ripercorrere la ricerca – artistica e spirituale – del pittore italiano nei suoi ripetuti soggiorni in India.
Tutti i membri della Transavanguardia sono andati proponendo un’arte iconica, in cui i valori manuali del segno, della materia prima e del colore si opponevano chiaramente alle opere concettuali predominanti fino agli anni Settanta. Nel caso specifico, però, Clemente ha attinto alle tecniche pittoriche e artigianali ancora utilizzate in India, per bilanciare l’eccesso di raziocinio delle avanguardie occidentali e ritrovare un suo equilibrio, come uomo e come artista.
Il primo viaggio di Francesco Clemente risale non a caso agli stessi anni Settanta. Già allora, l’artista decide di immergersi totalmente nelle abitudini locali, stabilendo tra l’altro collaborazioni con artigiani appartenenti alle diverse anime del continente indiano, delle quali fa propri stili, strumenti e concezioni.
Dipinti in stile pop – avendo Clemente lavorato al fianco di Warhol e Basquiat, negli anni Ottanta – evocano però la cartellonistica in lingua Tamil, come nel caso di Four Corners (1985). Gli aquerelli di Black Book (1989) ripropongono l’iconografia erotica dei templi a Orissa, Stato dell’India orientale. Quattro nuove sculture, realizzate appositamente per la mostra al Rubin Museum, ripropongono alcuni temi già affermati nella poetica di Clemente, ma in materiali e tecniche esecutive differenti: lasciando da parte carta e colori, stavolta è la volta del metallo, lavorato come l’artista ha visto fare nel grande Rajasthan.
Grazie alle tante fonti di ispirazione, di cui Clemente si è appropriato in quasi quarant’anni di ricerche sul campo, il suo lavoro mostra una varietà e una vena sperimentale davvero notevoli, persino per un’epoca come la nostra che ha fatto della novità un valore assoluto.
In effetti non è questo il caso di Francesco Clemente che, per quanto personalizzata e onorica sia la sua rielaborazione, ha scelto di rifarsi a una delle poche civiltà la cui storia non ha mai conosciuto declino o interruzioni.