Slow Food e la Berlinale. Al cinema con gusto

8 Febbraio 2013


Da un lato la tesi, espressione compiuta di una filosofia apparentemente semplice eppure ricca e complessa; lineare nella sua cristallina ma non per questo banale ragionevolezza. Dall’altra la sua esemplificazione, episodio assunto a icona tra i tanti modelli possibili. Due diverse angolazioni per raccontare la medesima avventura: quella che, da anni, Slow Food conduce nel mondo. Cercando di costruire una nuova, in realtà antica, cultura dell’alimentazione.

Due documentari intensi quelli che, nei prossimi giorni, arriveranno nell’apposita sezione che il Festival del Cinema di Berlino dedica all’arte culinaria. Con “Slow Food Story” il regista Stefano Sardo si spinge a Bra, minuscola città del Piemonte dove tutto ebbe inizio: nell’incontro con il papà dell’associazione, Carlin Petrini, ecco emergere nella sua semplice profondità l’idea che ha portato, non solo in Italia, a ripensare il modo di intendere agricoltura e industria alimentare.

Sostenibilità: parola d’ordine inderogabile per Slow Food, preziosa sentinella a presidio di prodotti tipici, pratiche agricole tradizionali, sani rapporti di amore e rispetto tra l’uomo e la terra. Concetti alti, ma non per questo eterei. L’ideale perseguito dall’associazione, nobilissimo, è infatti pratica reale ed effettiva: come dimostra l’altro film presentato alla Berlinale, nella cornice del Martin Gropius Kino.

Con “Couscous Island” ci si sposta nell’isola di Fadiouth, al largo delle coste del Senegal: la coltivazione del miglio, elemento essenziale per la dieta di una popolazione poverissima, rappresenta sfida quotidiana per la sopravvivenza di una cultura secolare, armonico equilibrio tra gli immutabili cicli naturali e le necessità di approvvigionamento dell’uomo. Un sistema fragilissimo, ma esempio vitale di rispetto e tolleranza.