E luce fu! Alla Biennale di Mosca

24 Settembre 2013


Cilindri imponenti, selva incombente di ciminiere da cui scaturisce una nuvola di tulle antracite. Leggera e poetica, ma al tempo stesso crudamente minacciosa. È Yona Friedman, alla veneranda età di novant’anni, a offrire l’intervento forse più magnetico e significativo della quinta Biennale di Mosca, in scena da questi giorni e fino alla fine di ottobre. Evocando attraverso l’incubo dell’inquinamento le contraddizioni dell’età contemporanea.

Una settantina i nomi invitati dalla curatrice belga Catherine de Zegher al Manege, l’ex maneggio degli zar a un passo dalla Piazza Rossa, oggi riconvertito a spazio per le arti. Libero sfogo ad una creatività dirompente, guidata da una parola chiave: luce. L’invito è quello di rischiarare attraverso l’arte un mondo rabbuiato da crisi e tensioni, guardando alla società di oggi con occhio critico, fornendo inedite chiavi di lettura del presente.

Gosia Wlodarczak trasforma un’immensa parete specchiata in tela per le sue raffinatissime calligrafie, bianche immagini caleidoscopiche che giocano con i riflessi dei visitatori creando magici effetti visivi;  onirico e visionario il pallone aerostatico ormeggiato all’interno del Manege dal belga Panamarenko, illusione di una fuga impossibile e al tempo stesso icona di un’epoca dal fascino pioneristico.

Frammenti di memoria quelli assemblati dalla cinese Yin Xiuzhen, che recuperando brandelli di abiti dimenticati e lacerti di muri mette in scena una intima archeologia del vissuto. Il tema dell’identità, tanto individuale quanto collettiva, è al centro dell’esperienza di più artisti presenti a Mosca: passando dagli affetti registrati nelle fotografie di Umida Akhmedova e arrivando agli interventi dell’indiano Amar Kanwar.