Hans Richter al Pompidou di Metz. Ossessioni astratte

16 Dicembre 2013


Ha conosciuto da vicino l’orrore della Prima Guerra Mondiale, rimanendo ferito sul fronte occidentale. Naturale dunque, per lui, trasferire nell’arte la necessità di fuggire da una realtà abominevole ma al tempo stesso di sublimarla, cercando nella pulizia lineare della forma nuovi codici per rappresentare la natura sensibile. Non c’è quindi contraddizione nell’opera di Hans Richter, nato dadaista e maturato come punto di riferimento per il costruttivismo di area Bauhaus.

Completa la retrospettiva che il Centre Pompidou di Metz dedica, fino a fine febbraio, ad una delle figure più importanti dell’arte tedesca del XX secolo. Grazie a un percorso espositivo che non si limita a leggere la sua parabola creativa, ma vive del confronto serrato con l’esperienza dei nomi che hanno segnato le grandi avanguardie del Novecento: partendo da un imprescindibile Marcel Duchamp e arrivando ai vari Malević, Rietveld e Van Doesburg.

Si parte dagli esplosivi lavori degli Anni Dieci, con la serie di quei Ritratti visionari  che guarda con eclettica freschezza all’avventura Dada, ma si spinge nella sperimentazione sulla grafica ad inediti incroci che sembrano ammiccare tanto all’espressionismo quanto alla lezione formale dei multipli di Matisse. E si arriva, passando dall’incontro con l’eccentrico pittore Viking Eggeling, all’analisi sulle forme semplici, duttili mattoni con cui dare nuovo ritmo alla visione del reale.

Disegni e dipinti, ma anche la grande passione per il cinema: affrontato con risultati avveniristici dal punto di vista narrativo. Spettacolare la sezione dedicata all’esperienza di FiFo, rassegna che lo stesso Richter ha curato nel 1929 a Stoccarda, chiamando a raccolta cineasti e fotografi di fama internazionale. Dimostrando, nel coinvolgimento dei vari Edward Weston, Man Ray e Moholy-Nagy un acume e una sensibilità di eccezionale modernità.