È dagli Anni Ottanta che immortala, rigorosamente in bianco e nero, paesaggi post-industriali dagli inquietanti silenzi. Oltre il cinema la fotografia per David Lynch: in mostra alla Fondazione MAST di Bologna
Monolitiche torri di raffreddamento di centrali nucleari, enigmatiche e incombenti come antiche piramidi. E poi distese di lamiere, putrelle in ferro tese sullo sfondo di cieli plumbei; reticoli di tralicci dell’alta tensione, fumi come nebbie obnubilanti. Scenari post-apocalittici, inquieti prima che inquietanti; memoria di una deindustrializzazione che diventa metafora del delirante nichilismo contemporaneo. Nelle immagini di un maestro assoluto del cinema.
Risalgono agli Anni Ottanta le prime fotografie che David Lynch ha dedicato a fabbriche e capannoni sparsi per mezzo mondo, recentissime le ultime. Una collezione ora in mostra alla Fondazione MAST di Bologna, poliedrico spazio che lega arte e cultura d’impresa, creatività e innovazione tecnologica. Il luogo più indicato per accogliere le visioni di un implacabile narratore, mistico e misterioso traduttore degli incubi più segreti.
“Non saprei cosa fare con il colore. È troppo limitante, vincola alla realtà” : così Lynch spiega la scelta del bianco e nero, assolutamente non anacronistica. Semmai funzionale al filtro marcatamente espressionista della sua fotografia, che indugia su spazi abbandonati, derelitti, devastati dall’oblio di una implicita condanna all’inedia eterna. Luoghi densi di mistero, ideali scenari per il suo cinema.
Lynch si muove tra la Polonia e la periferia londinese, passando da Berlino al New Jersey, costruendo un atlante dell’impossibile; un labirinto visuale dove i punti di riferimento subiscono uno scarto verso la sfera del surreale, imponendo un modo differente di osservare. Con lo spettatore – e l’artista insieme a lui – ad essere soverchiato e quindi conquistato dall’ossimoro di una terrificante bellezza. E della sua spaventosa armonia.