Idoli nuragici, misteriose figure etrusche, statue votive egizie: il rapporto tra la scultura di Alberto Giacometti e l'antico più remoto viene esplicitato per la prima volta, in modo tanto chiaro, al MAN di Nuoro
I suoi referenti formali, i maestri e i modelli che ha scelto di seguire, non hanno nome. Le loro identità si mescolano alla polvere del tempo, confondendosi sotto la patina dei secoli: non Donatello, non Michelangelo, non i grandi nomi dell’Ottocento – da Medardo Rosso a Rodin – ma anonimi scalpellini egizi, misconosciuti artisti-sciamani dell’Africa nera, misteriosi artigiani etruschi sono i padri putativi di uno tra i più grandi scultori del Novecento. Alberto Giacometti.
Una mostra unica quella allestita in questi mesi al MAN di Nuoro, spazio dove tessere in modo mai così chiaro e limpido rapporti altrimenti solo evocati. In questo caso è la prova dei fatti, più di ogni puntuale analisi e ricostruzione critica, a dettare il legame strettissimo che unisce Giacometti all’immaginario di un antico che si fa arcaico, ben più profondo ed enigmatico di possibili incontri con la statuaria ellenistica.
Nei suoi viaggi in Italia, documentati a partire dagli Anni Venti, Giacometti non cerca l’ispirazione dei marmi classici; preferisce appropriarsi delle ossute e spigolose linee della civiltà nuragica – e non è un caso, dunque, che questa mostra nasca in Sardegna – specchio di una visione della figura umana che si ricollega alle androgine divinità micenee e minoiche, e poi ancora alle slanciate icone delle culture Oko e Igala. Andando oltre il gusto per l’orientalismo e l’esotico, riannodando i fili di una comune ascendenza a valori plastici che nascono nella notte dei tempi.
I pezzi più significativi del percorso di Giacometti, in arrivo dalla collezione Peggy Guggenheim e dalla Kunsthaus di Zurigo, si trovano così per la prima volta faccia a faccia con i loro progenitori. Opere conservate al Museo Archeologico di Cagliari e a quello di Bologna, in arrivo dalle collezioni etrusche di Villa Giulia o da quelle piacentine di Palazzo Farnese, testimoni di un linguaggio espressivo comune. Più forte delle distanze geografiche e temporali, più profondo dei retaggi delle diverse culture.