Fino al 15 maggio, la Photographica Fineart Gallery di Lugano ospita la mostra Nino Migliori – incanto e illusione. Ripercorrendo l'evoluzione linguistica della fotografia italiana attraverso le opere di uno dei suoi protagonisti.
Nino Migliori sviluppa il suo stile a contatto diretto con la Scuola del Neorealismo. Il suo esordio risale infatti agli anni del dopoguerra, lasciandogli in eredità la predilezione per la fotografia in bianco e nero ma, soprattutto, il desiderio di esplorare – e ritrarre – la realtà secondo un’inedità libertà di giudizio ed espressione.
Sarà forse per quella prossimità all’arte cinematografica, sta di fatto che presto il fotografo di Bologna – nato nel 1926 – comincia a sviluppare fotografie in serie, invece di singoli scatti. Uno scarto concettuale, il suo, che lo avvicina alle sperimentazioni visive condotte dalle avanguardie artistiche in vari parti d’Europa. Migliori giunge quindi ad accumulare segni urbani, invece di rincorrere momenti topici: negli anni Cinquanta, fotografa Muri e Manifesti strappati.
Non si tratterà dell’ultima evoluzione linguistica della fotografia di Migliori, la cui sperimentazione l’ha condotto in tempi recenti all’inedito lavoro Cuprum, dove le tracce umide lasciate dai boccali di birra sui tavolini dei pub vengono esaltate e decontestualizzate. “Il risultato è l’incanto e l’illusione di una favola che assume le variabili fisionomiche e cromatiche della luna”, scrive l’esperto di fotografia Denis Curti.
La mostra Nino Migliori – incanto e illusione, in corso a Lugano presso Photographica Fineart Gallery fino al prossimo 15 maggio, propone appunto una cronologia di fotografie dell’artista per esprimere la sua continuità nella sperimentazione, invece che in uno stile più o meno riconoscibile – e cristallizzato, in fin dei conti. Un’evoluzione artistica, quella di Migliori, che è dettata dallo stesso cambiamento tecnologico, con le possibilità che man mano vengono offerte al fotografo. Come conclude giustamente il critico Curti: “Altrimenti, per dirla con le sue stesse parole, saremmo ancora fermi ai dagherrotipi”.