Intitolata come il singolo del suo album di elettronica più famoso, l’autobiografia del musicista statunitense racconta la sua vita a New York City tra il 1989 e il 1999. Tra club culture, rave party... ed eccessi.
Moby, al secolo Richard Melville Hall, non credeva in Porcelain, tanto da pubblicarla come sesto singolo del suo album del 1999 Play. Ma la canzone è diventata col tempo uno dei suoi brani più famosi e apprezzati. Forse è per questo motivo che ha deciso di intitolare così il suo libro di memorie, dopo che qualcuno gli ha suggerito di ripercorrere la stessa strada dello scrittore Herman Melville, suo prozio e autore di Moby Dick: “Le storie che racconti sono fantastiche, dovresti scriverle. Così l’ho fatto”.
L’autobiografia musicale ripercorre il primo decennio di carriera del musicista elettronico statunitense, dai tardi anni Ottanta fino alla registrazione del quinto album Play, con cui raggiunge l’agognato – e meritato – successo.
Porcelain racconta di come un “povero, magro ragazzo bianco dal lontano Connecticut” arrivi nella Grande Mela per lavorare come musicista e dj nei club alla fine degli anni Ottanta, ritrovandosi a vivere quegli anni in tutti i suoi aspetti – anche i più oscuri: droga, alcool, rave party e incontri sessuali casuali.
Per cinque anni Moby sopravvive, dormendo in hangar e fabbriche abbandonate, finchè riesce a imporsi come dj al club Mars di New York, in un’epoca edonistica e sfrenata in cui la musica dance è ancora sostanzialmente un fenomeno underground, radicato soprattutto nella comunità operaia afroamericana e latinoamericana.
Porcelain è al contempo il ritratto di una città, di un’epoca e la storia di un successo; raggiunto e perduto, amato e odiato. Per accompagnare il suo memoriale, Moby ha pubblicato anche un doppio CD – intitolato Music From Porcelain – come ideale colonna sonora della sua storia e realizzato un breve documentario, a suo completamento visivo.