L'Hirshhorn Museum and Sculpture Garden di Whashington porta nell'East Coast l'artista californiano che, già negli anni Sessanta, ha sovvertito le regole della percezione visiva con le sue installazioni ambientali.
Presso il grande pubblico, la Minimal Art degli anni Sessanta è spesso additata come l’esempio estremo di un’arte contemporanea “noiosa”. Le lucide scatole metalliche di Donald Judd o i parallelepipedi di Robert Morris, in effetti, sono oggetti che difficilmente possono emozionare lo spettatore, che quindi resta inizialmente spiazzato.
Decisamente un altro tipo di spiazzamento è quello che, sull’altro versante degli Stati Uniti ovvero in California, Robert Irwin andava ricercando con le sue opere. Minimaliste come quelle di Judd e soci, ma decisamente più impattanti. E come si potrebbe restare indifferenti a un’installazione di cui si è parte integrante, che mette in discussione le nostre stesse percezioni sensoriali?
Immersiva, illusoria, affascinante: nella seconda metà del Novecento, lavorando con materiali semplici ma poco convenzionali quali garze evanescenti e fonti di luce, Irwin ha saputo via via realizzare opere di sempre maggior respiro.
L’iter cronologico della ricerca artistica dell’autore californiano è ben ripercorso nella mostra Robert Irwin: All the Rules Will Change, in corso fino al 5 settembre a Washington presso l’Hirshhorn Museum and Sculpture Garden. Partendo dai piccoli dipinti astratti sul finire degli anni Cinquanta, la grande mostra retrospettiva segue la carriera di Irwin fino ai nostri giorni, in un crescendo di installazioni-sperimentazioni sempre più coinvolgenti per i nostri sensi. Fino all’opera site-specific realizzata da Irwin proprio per l’esposizione, in dialogo con l’architettura del museo.
[Immagine in apertura: Steve Kahn, Robert Irwin nel suo studio a Venice, Los Angeles, nel 1970]