Chi ha piantato angurie e granoturco su una collina ad Atene? L'artista argentino Adrián Villar Rojas, che nel sito archeologico della Collina delle Ninfe e all'interno dell'Osservatorio Astronomico, fondato nel 1832, dimostra quanto la vita non si lasci mai fermare da confini, identità nazionali e norme culturali. Perché, come accade nel terreno coltivato, anche civiltà e periodi storici si mescolano e sovrappongono gli uni agli altri...
Qualche anno fa, presso la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino l’artista argentino Adrián Villar Rojas aveva portato un senso di inquietudine, disseminando lo spazio espositivo di reperti minerali e organici “liberi” di seguire il proprio ineluttabile corso verso la dissoluzione. Quest’estate, invece, ad Atene l’autore ha scelto di “disturbare” l’assetto del sito archeologico della Collina delle Ninfe e del vicino Osservatorio Astronomico introducendo ben altre implicazioni e sfumature emozionali.
Invitato da NEON a realizzare la sua prima installazione site-specific in un contesto così antico, per sancire l’indipendenza della Grecia nel 1832, Adrián Villar Rojas ha declinato i suoi interessi poetici per i temi della scomparsa, del cambiamento e della volatilità di ogni status reinterpretando la stessa memoria storica del sito, a cominciare… dal suolo. Come ha spiegato l’artista, se nella sua Argentina la terra è innanzitutto un mezzo per produrre – coltivando o allevando – appena arrivato in Grecia ha compreso che anche in questo caso “il suolo è costitutivo della loro identità nazionale, ma in un modo completamente diverso. Ciò che è sotto i nostri piedi è la Cultura: migliaia di anni di civilizzazione“.
Per valorizzare una simile intuizione, l’artista ha selezionato e impiantato 46mila piante, appartenenti a 26 specie vegetali differenti; dai cereali al bambù, dalle zucche alle angurie. Per quattro mesi, le piante dovranno sopravvivere l’una di fianco all’altra, perpetuando con la loro stessa crescita l’atto simbolico del piantare, che Adrián Villar Rojas ha appunto caricato di valenze esistenziali: libertà, sicuramente, ma anche la capacità di coesistere, quella di far fronte alle difficoltà per sopravvivere e di riparare ai danni subiti.
All’interno dell’Osservatorio, la messinscena ritualizzata della lotta per la vita prosegue attraverso l’esposizione in differenti vetrine – anch’esse circondate da roccia, polvere e terra né più né meno che fossero appena riemerse dallo stesso sito archeologico esterno – di manufatti culturali, storici e militari. Come a dire che non ha mai fine, l’eterna ambizione di conquista ed espansione da parte dell’Uomo, così ansioso di colonizzare sempre nuove parti della Terra.
Così accostati, reperti di ogni epoca all’interno e piante di ogni clima all’esterno ci ricordano con piena evidenza sensoriale che limiti, confini, barriere sono convenzioni a carattere temporaneo: l’identità nazionale – sempre più confusa con quella globale – e la cultura, le norme e gli stereotipi sono tutti protagonisti di un “teatro della sparizione” – Theatre of Disappearance, come s’intitola l’intervento artistico – in bilico tra le spinte costanti alla conquista e all’esplorazione di ciò che c’è subito oltre. E che, una volta acquisito, cambierà gli stessi che se ne sono appropriati.