È una riscoperta davvero preziosa quella messa in campo dalla Collezione Peggy Guggenheim, che dedica uno speciale focus monografico a uno dei pittori più talentuosi del Novecento.
Sono trascorsi 60 anni dalla morte di Osvaldo Licini e dal Gran Premio per la pittura conferitogli dalla Biennale di Venezia nel 1958. Per celebrare l’importante anniversario, la Collezione Peggy Guggenheim di Venezia intitola all’artista un’attesa retrospettiva ‒ Osvaldo Licini. Che un vento di follia totale mi sollevi ‒ ripercorrendone l’intensa carriera.
Curata da Luca Massimo Barbero e allestita in 11 sale espositive, la rassegna, in corso fino al 14 gennaio 2019, riunisce oltre 100 opere che testimoniano il carattere tormentato ma coerente dell’arte di Licini. Sempre in bilico tra figurazione e astrazione, l’autore trovò nella pittura il cardine della sua ricerca, dominata da un incessante afflato sperimentale.
Formatosi a Bologna, ma interessato alle istanze pittoriche internazionali ‒ complici i ripetuti soggiorni a Parigi ‒ Licini conservò una certa indipendenza rispetto al panorama artistico italiano, dedicandosi a una iniziale riflessione figurativa sui suoi paesaggi d’origine, quelli dei colli marchigiani, per poi avvicinarsi al non figurativo, comparendo fra gli artisti in mostra presso la Galleria “Il Milione” di Milano.
Con il passare degli anni la pittura di Licini, attestatasi saldamente sul confine astratto-figurativo, lascia emergere simboli e personaggi divenuti poi emblemi del suo stile.
Ne è un esempio l’Amalassunta, definita dallo stesso artista “luna nostra bella, garantita d’argento per l’eternità, personificata in poche parole, amica di ogni cuore un poco stanco”, ben presente nella mostra veneziana attraverso una selezione di opere che dimostrano la varietà dei registri di Licini, da quello lirico a quello più dissacrante.