Come si vive in una megalopoli come Hong Kong? Ne sa qualcosa il fotografo tedesco Michael Wolf, che ci si è trasferito nel 1994. Ha iniziato così a riflettere sulle condizioni - spesso paradossali - in cui la società contemporanea mette i propri membri: schiacciati contro i vetri di un vagone della metropolitana, o stipati in grattacieli che una singola inquadratura non riesce a contenere...
Nel contest del 2011, il World Press Photo assegnò una menzione d’onore a un progetto particolarmente interessante, se consideriamo che neppure uno scatto era stato effettuato dal suo autore: con A series of unfortunate events, il fotografo tedesco Michael Wolf si aggiudicava un riconoscimento nella più importante competizione mondiale dedicata al fotogiornalismo, di fatto selezionando una serie di immagini (e relative storie) “involontariamente” catturate dalle camere di Google Street View nel corso delle proprie ricognizioni per la mappature delle strade del globo.
A distanza di anni, vale ancora la pena iniziare da questo progetto per spiegare l’assoluta unicità dello sguardo di Michael Wolf sul mezzo fotografico e il suo utilizzo, per restituire una particolare prospettiva della nostra società.
Al fotografo classe 1954, nato a Monaco per poi stabilirsi a Hong Kong nel 1994, dopo aver vissuto tra Stati Uniti, Europa e Canada, la House of Photography nella Deichtorhallen di Amburgo dedica – fino al prossimo 3 marzo – la grande mostra Michael Wolf: Life in Cities. 12 diverse serie fotografiche e una monumentale installazione a muro restituiscono finalmente una panoramica sul variegato rapporto dell’autore con la fotocamera.
Che in alcuni casi proprio non utilizza, come abbiamo visto, e in altri non costituisce che una parte della propria riflessione. Consideriamo appunto l’installazione The Real Toy Story, che ritrae alcuni lavoratori nelle fabbriche cinesi di giocattoli: le stampe fotografiche sono “incorniciate”, per non dire pressoché sommerse, da 20mila di quei giocattoli a buon mercato.
Un modo quasi letterale, per trasmettere allo spettatore una delle “misure” che più contraddistingue la società contemporanea e allo stesso tempo ci sfugge: l’estremizzazione delle “quantità”, ovvero la “densità” con cui stiamo popolando il mondo e le aree metropolitane in particolare. Perché è spesso soffocante, la mole di oggetti, edifici (come ben mostrato in Architecture of Density, in cui i grattacieli e architetture di grande altezza occupano tutta l’inquadratura, senza che si veda il cielo o il piano terra) ed esseri umani (i passeggeri schiacciati contro le porte dei treni della metropolitana in Tokyo Compression ne sanno qualcosa) di cui stiamo ammantando ogni metro quadro della superficie del globo.