Il rapporto della scrittrice Melania Mazzucco con la storia di Jacopo Robusti, della sua Venezia e della sua famiglia, inizia diversi anni fa: autrice già di un romanzo e di un saggio entrambi incentrati su Tintoretto e le sue relazioni, ora la narrazione si completa con il docu-film da lei ideato, “Tintoretto. Un Ribelle a Venezia”.
Dopo una ricerca durata una decina d’anni, tra il 2008 e il 2009 la scrittrice Melania Mazzucco ha pubblicato due diverse opere letterarie, entrambe dedicate alla vicenda di Tintoretto e alla sua famiglia. La lunga attesa dell’angelo è un romanzo storico, incentrato non tanto – o non soltanto – sulla storia di Jacopo Robusti quanto sulla figlia Marietta, anch’ella artista, e sulla sua vita all’interno di quella del padre. Sempre per Rizzoli è uscito l’anno seguente Jacomo Tintoretto e i suoi figli. Storia di una famiglia veneziana, un voluminoso saggio che restituiva in dettaglio le ricerche condotte da Melania Mazzucco per ricostruire, con dovizia di dettagli, la fortuna del pittore e della sua bottega, sullo sfondo della Venezia del Cinquecento.
A distanza di 10 anni, oggi Melania Mazzucco è l’ideatrice del docu-film Tintoretto. Un Ribelle a Venezia, la nuova produzione di Sky Arte in anteprima nei cinema italiani i prossimi 25, 26 e 27 febbraio. Abbiamo raggiunto la scrittrice per farci raccontare in prima persona la sua duratura passione per il pittore veneziano, nonché questo articolato progetto che ha intrapreso per raccontarne la grandezza.
Ci ha colpito il fatto che lei abbia dedicato diverse opere a biografie di artisti o autori. Da Giovanni Pascoli a Tintoretto e la figlia Marietta, cosa la affascina di queste esplorazioni retrospettive?
Quando si tratta di personaggi ingombranti come Pascoli, mi muove la convinzione che tutto quello che so di lui non restituisce per niente l’immagine di una vita anche rivoluzionaria, di un ribelle. Pascoli è un personaggio che noi riceviamo imbalsamato dalle scuole, in cui viene censurata completamente tutta la fase giovanile, socialista, di agitatore politico che sognava davvero la rivoluzione. Che poi lo abbia fatto in poesia in tutt’altro modo, è un’altra storia. Mi piaceva l’idea di riscoprire questa giovinezza e un’infanzia diversa. Mi interessavano moltissimo i suoi rapporti familiari, le sue rinunce e la sua vita personale in relazione con le sorelle.
Sono sempre partita in realtà dalla folgorazione per l’artista, poi dopo mi è interessato lavorare sulla sua vita.
Per Tintoretto è successa la stessa cosa che per Pascoli: mi sono innamorata del pittore, lo amo profondamente come artista; poi però mi ha affascinato profondamente la sua figura umana, di padre, di uomo libero che ha cercato sempre di sovvertire le regole e costruirsi un mondo a sua misura con l’unico scopo di dipingere.
Possiamo immaginare la fascinazione per Tintoretto, ma lei è riuscita a creare più di un’opera attorno alla sua storia, scegliendo forme anche piuttosto differenti. Che cosa diversifica le sue produzioni dedicate a Tintoretto? E cosa l’ha spinta ad ampliare il suo lavoro in questi termini?
Sin dall’inizio mi sarebbe piaciuto fosse un progetto multimediale.
Io sono in realtà partita dalla biografia, che poi è stata pubblicata dopo il romanzo. Quell’opera prima ha richiesto una decina d’anni per essere realizzata: non volevo scrivere soltanto la biografia di Tintoretto, ma della famiglia e della sua città. Il legame con Venezia, che poi abbiamo valorizzato anche nel documentario, era un po’ il punto centrale della storia. Mi interessava raccontare il contesto della vita di Tintoretto: di solito, in Italia almeno, raccontiamo la biografia del pittore avulsa dall’esistenza materiale che la persona ha vissuto. A me interessava invece ricostruire esattamente quello: qual era il suo mondo, qual erano le sue relazioni, qual era la vita quotidiana di un pittore nella Venezia del 1540, piuttosto che del 1580.
Cercare di ricostruire tutta la rete delle sue amicizie, dei suoi rapporti, dei suoi figliocci e poi della stessa famiglia di Tintoretto: ha avuto nove figli, di cui cinque femmine; le figlie di Tintoretto permettono di raccontare l’intero panorama della condizione femminile nel Cinquecento. Due sono diventate mogli, destinate al matrimonio; due sono finite in convento e una ha fatto l’artista: erano i tre destini possibili per le donne dell’epoca. Questo mi ha affascinato molto e pensavo anche fosse un qualcosa di inedito: un’opera collettiva, un libro senza genere, la biografia di una famiglia. Un libro a metà tra la storia dell’arte e la storia sociale.
Nello stesso tempo, mentre scrivevo la biografia mi sono resa conto che molte delle cose che sapevamo di Marietta, in particolare, sono frutto di una sorta di invenzione del personaggio della figlia da parte del padre, Tintoretto. Lui decise che cosa dovevamo sapere di lei e cosa invece dovevamo ignorare: ha costruito il mito di Marietta. Allora ho pensato sarebbe stata interessante scrivere anche un romanzo, riscrivendo la leggenda con gli strumenti che andavo nel frattempo acquisendo con la ricerca biografica e, ovviamente, la contemporaneità dello sguardo di una scrittrice che scrive questa storia oggi.
L’idea era quella di realizzare sin da subito anche un progetto completamente diverso, cioè utilizzare il linguaggio delle immagini per raccontare la storia del pittore, e solo quella, mediante le sue stesse opere. Perché Tintoretto è un pittore “invisibile”: a parte quelli della Scuola Grande di San Rocco – che sono stati tra l’altro seguiti, restaurati e illuminati in maniera nuova – la maggior parte dei suoi quadri giacciono nelle chiese dove le ha collocate, illuminate malamente o appese su pareti altissime.
Penso per esempio a uno dei migliori lavori presenti nel documentario, il Giudizio Universale nella Chiesa della Madonna dell’Orto: è un quadro fantastico, ma che in effetti non si può vedere.
Mi è venuta così l’idea di utilizzare il cinema per poter guardare, letteralmente, i quadri di un pittore che altrimenti noi amiamo senza riuscire a goderne appieno. E solo il cinema poteva dare la libertà di avvicinarci così tanto, muovendo la macchina da presa.
Quindi, questo format era già previsto, almeno nella sua mente. Era parte organica del suo progetto.
Sì, di fatto tutti quelli che hanno letto il romanzo o la biografia sono andati poi a Venezia, a cercare e vedere questi quadri. Ho incontrato in questi anni migliaia di lettori che, dopo la lettura, volevano guardare con i propri occhi, farsi una loro visione dell’arte di Tintoretto. Era in qualche modo obbligatorio realizzare un progetto cinematografico, perché già i libri portavano ai quadri.
E l’idea è anche che questo documentario possa vederlo chiunque, anche chi non ha mai letto i miei libri e voglia comunque avvicinarsi al pittore, compiendo il percorso alla rovescia.
Con dieci anni di studio, una mole incredibile di conoscenze acquisite e pensieri suoi sviluppati su Tintoretto, quanto è stato difficile compiere appunto questo processo inverso? Selezionare cioè un percorso a cui attenersi, all’interno di tutte queste conoscenze?
È stato un percorso difficile, sì. Io in tutti questi anni mi sono divertita a organizzare con i lettori viaggi a Venezia. L’ho fatto per i lettori, così abbiamo potuto “completare” il percorso dei libri. Ovviamente, il documentario con Sky Arte richiedeva si pensasse a chi i libri non li ha letti. Quindi mi sono dovuta spogliare un po’ di tutto quello che sapevo, anche di quello che avevo già fatto con i libri stessi, e provare a raccontare Tintoretto a chi proprio non lo ha presente. Chi non ha visto i suoi quadri, chi l’ha sentito nominare e conosce solo alcune nozioni generiche sulla sua arte. Come se fosse un nuovo inizio.
Il cinema poi è un po’ questo: spesso i libri si leggono dopo aver visto un film. Ho provato a raccontare, con un linguaggio anche più immediato, quelle che sono le cose più importanti di questo pittore, in maniera da far appassionare lo spettatore alla sua arte. Sperando di portare le persone a vedere i quadri con i loro occhi. Far appassionare a un pittore controverso, che non è mai stato amato dalla critica d’arte, che non si studia bene perché ha avuto una tradizione accademica sfavorevole.
In effetti, rispetto a un Tiziano la popolarità è decisamente minore. Ma, alla resa dei conti, davvero Tintoretto sarebbe un pittore “minore” rispetto a un Tiziano o a un Veronese?
No, io anzi l’ho sempre trovato molto più interessante. In questo senso, la mia fortuna è stata quella di non avere una formazione da storica dell’arte modernista: all’arte moderna e a Tintoretto ci sono arrivata in qualche modo da autodidatta. Come lui ha imparato da autodidatta a dipingere, io ho imparato da autodidatta ad apprezzarlo.
Mi ha interessato tantissimo il suo metodo di lavoro, il modo in cui ha lavorato sulla composizione dell’immagine, sul taglio di quella che oggi chiameremmo inquadratura, sul lavoro di montaggio del tempo, sul colore: tutte cose che ho trovato estremamente vicine alla nostra sensibilità, molto più della perfezione formale di altri Maestri.
La difficoltà nell’apprezzare Tintoretto, proprio perché era un grande sperimentatore, è quella di non avere un’opera iconica cui fare riferimento: prima di amarlo e di conoscerlo, nessuno ha in mente un quadro immediatamente riconoscibile, “suo”, come succede per un Tiziano, un Raffaello o un Bellini. Questa è la difficoltà di cui ci siamo resi conto un po’ tutti: Tintoretto non si è mai accontentato, ha sempre sperimentato, a volte Tintoretto non “sembra” Tintoretto; è più complesso da raccontare, in questo senso. Ma per me è anche una delle ragioni della sua vitalità, il fatto che non si lasci imprigionare in nessuna etichetta: per un artista è il massimo della libertà.
Secondo lei, in fondo, è questo “il momento” di Tintoretto.
È la cosa che infatti mi ha fatto piacere in questi anni. Quando ho iniziato la mia ricerca mi sentivo sola, mi sembrava di condurre una battaglia da Don Quichotte. Invece nell’ultimo decennio si è sviluppata una sensibilità condivisa, dalla mostra del 2007 a Madrid, c’è stata una grande riscoperta di Tintoretto soprattutto all’estero, per dire la verità. Ora lo sentiamo più vicino alla contemporaneità: più interessante, più innovativo, più coraggioso, un precursore che non ha avuto allievi.
E neanche maestri, a ben guardare.
Assolutamente. Questo è stato un handicap tremendo, all’inizio, il non aver mai avuto uno sponsor vero né nel mondo dei pittori né nel mondo intellettuale. È rimasto da solo, Tintoretto, a condurre la sua battaglia, che non è mai stata capita fino alla nostra epoca, credo.
Penso per esempio all’autoritratto del Louvre, in cui è già in là negli anni: sappiamo che è suo, è firmato e ci sono tracce negli inventari, insomma è un quadro certo; eppure a guardarlo, sembra che sia stato dipinto nell’Ottocento. Tintoretto era proprio fuori dal suo tempo.
Quale pensa possa essere per lo spettatore cinematografico il messaggio, la lezione da trarre da una figura e da un’opera come quella di Tintoretto: il coraggio?
Sicuramente l’audacia, intanto.
Di un artista che non fu precoce; nella storia dell’arte, c’è sempre la facilità del raccontare il genio, l’artista già fatto. Tintoretto invece è uno “che si fa”: a trent’anni firma uno dei suoi primi capolavori, e trent’anni non sono pochi nel Cinquecento. È un artista che si è costruito, c’è questa tenacia, questo coraggio visionario nel credere nelle proprie possibilità, ma anche nel costruirsele. Quando inizia, non sa dipingere come arriverà a fare, non ha chiaro nemmeno lui chi voglia diventare.
Tintoretto può piacere da una parte per il personaggio, privo di compromessi e in questo senso libero e anche ribelle: non è mai stato alle regole, le ha sempre infrante. Questo è qualcosa che possiamo capire, oggi, dopo tutta la tradizione degli artisti maledetti, solitari dell’Ottocento.
L’altra cosa che possiamo apprezzare è il linguaggio cinematografico che Tintoretto ha inventato, prima ancora di Caravaggio: lo stesso Peter Greenaway, quando è stato intervistato, ha indicato in questo uno degli aspetti che più lo hanno sbalordito. Tintoretto era un grandissimo regista, metteva in scena le masse, illuminava gli ambienti come un grande direttore della fotografia, ha inventato la profondità di campo e tutta una serie di modalità espressive che per noi oggi sono scontate. Ma allora erano incredibili, la profondità dello spazio in Tintoretto non veniva capita.