Chiude con il botto la storica sede del Whitney Museum di New York, prossimo al trasferimento nel nuovo edificio griffato Renzo Piano. In mostra l’irriverente e scandaloso universo pop di Jeff Koons
La sua arte non ammette compromessi: o si ama, senza se e senza ma, oppure si detesta in modo virulento e viscerale. Non lascia indifferenti – non l’ha mai fatto – Jeff Koons: discusso, chiacchierato, criticato, accusato di essere tra i protagonisti della deriva trash della Pop Art, carnefice e insieme vittima di una prassi che avrebbe cannibalizzato le dinamiche del mercato dell’arte. Arrivando a snaturare l’anima stessa dello spirito creativo.
A prescindere dalla salve di giudizi – angelo o diavolo, genio o impostore – Koons resta uno dei protagonisti assoluti della scena degli ultimi venticinque anni: come dimostra la doverosa retrospettiva, la prima della sua carriera, che gli dedica il Whitney Museum di New York. Con centocinquanta opere a raccontare un percorso avviato a fine Anni Settanta e oggi più che mai vivo e vitale.
Solo pezzi iconici quelli accolti fino al 19 ottobre nelle sale su Madison Avenue, per l’ultimo show prima del trasferimento del museo dalla sua sede storica al nuovo edificio progettato da Renzo Piano (inaugurazione prevista per il 2015). Partendo dalle tele della scandalosa serie Made in Heaven , con l’artista che si ritrae senza veli insieme alla pornostar Ilona Staller, all’epoca sua moglie.
Dal pallone da basket sospeso nel vuoto di una soluzione acquosa, quasi fosse un graal post-moderno, fino all’imponente Michael Jackson in ceramica che richiama ironicamente pose alla Canova: l’immaginario di Koons è frutto di un nevrotico zapping visuale che mescola codici e linguaggi, reinventando gli schemi narrativi della società dell’immagine. Raccontando con ironico cinismo la decadenza dei miti contemporanei.
[nella foto: Jeff Koons, Michael Jackson and Bubbles , 1988. Collezione privata © Jeff Koons]