Caravaggio nella Napoli del Seicento

24 Ottobre 2014


Non ha creato una vera e propria scuola, ne avuto allievi riconosciuti: troppo difficile il suo carattere, troppo discontinua la sua vita di ramingo dell’arte per consentirgli di avere radici. Ma non per questo è stato incapace di seminare, Caravaggio. Anzi. Ben chiara ai suoi contemporanei e agli artisti delle generazioni immediatamente successive la sua grandezza: rapporto di devozione e ispirazione ricostruito oggi, a Napoli, grazie ad un accurato lavoro filologico.

Sono una trentina le opere esposte fino al prossimo gennaio alle Gallerie d’Italia di Palazzo Zevallos Stigliano, fotografia che restituisce alla città partenopea il suo ruolo fondamentale nella declinazione di un gusto artistico originalissimo: all’ombra del Vesuvio e nelle altre località del Viceregno si sviluppa nel segno del Merisi una cerchia di artisti di primissimo piano, testimone importante per la trasmissione del messaggio del maestro.

Testo fondamentale è Il martirio di Sant’Orsola  (nella foto), probabilmente l’ultima opera dipinta da Caravaggio prima della morte: un quadro, da sempre conservato proprio a Napoli, che diventa parametro per un confronto serrato con i lavori dei vari Battistello Caracciolo, Louis Finson, Carlo Sellitto, Filippo Vitale. Artisti cresciuti facendo proprie le istanze caravaggesche, declinandone ognuno secondo la propria peculiare sensibilità.

Ma il protagonista assoluto della mostra è, per quantità e qualità degli autografi esposti, Tanzio da Varallo. Il soggiorno napoletano del pittore piemontese risulta determinante per la maturazione di uno stile denso di disperata teatralità, e viene ora riconsiderato alla luce di nuove attribuzioni e recentissimi riscontri d’archivio. Presentati nella cornice di una mostra che ha il merito di riportare in Italia, dopo quattro secoli, opere poi disperse in importanti musei stranieri.