Il teatro di Robert Wilson, tutto giocato su eleganti stilizzazioni e lucide ironie, torna alla Scala con la sua nuova produzione de L'Incoronazione di Poppea, di Claudio Monteverdi. Dopo l'Operá di Parigi, andrà in scena a Milano fino al 27 febbraio.
Robert Wilson ha finalmente portato a compimento la sua “trilogia” monteverdiana: dopo L’Orfeo e Il Ritorno d’Ulisse in Patria, torna al Teatro alla Scala di Milano con l’ultima opera di Claudio Monteverdi, L’Incoronazione di Poppea.
Scritta ancora agli esordi del genere, nel 1642, vide il geniale librettista Gian Fransceo Busenello intrecciare vicende di sesso e potere in un titolo “storico” – basato su personaggi realmente vissuti quali Nerone e Seneca – per assicurarsi il grande pubblico. Monteverdi la lasciò invece manoscritta, con le linee di canto in larga parte sprovviste di armonie e strumentazione.
Un’opera, quindi, che si presta per la sua storia – quella narrata, come quella creativa – a essere ricostruita, anche se la nuova produzione di Robert Wilson supera ogni aspettativa. Rappresentata all’Operá Garnier di Parigi, L’Incoronazione di Poppea giunge oggi a Milano forte di un interesse internazionale già molto alto. A cominciare dalla scelta registica di “raffreddare” una delle più violente storie di passione mai rappresentate nell’opera.
Nerone e Poppea, la cui relazione è così pericolosa da condannare alla morte o all’esilio chiunque vi si imbatta, durante la rappresentazione di Robert Wilson non si toccheranno mai. Persino nel duetto finale, Pur ti miro, uno spazio vuoto continua a separare le loro mani tese. Vestiti in voluminosi, barocchi costumi che ben s’intonano ai volti incerati di bianco, i protagonisti del dramma ostentano una gestualità contenuta, da personaggi di corte di consumata carriera.
Una scelta intepretativa, quella di Wilson, che riflette in realtà il contesto sociale della Venezia seicentesca, finemente intellettuale, per la quale l’opera è stata composta. Un’intepretazione filologica, a suo modo, nonostante l’effetto straniante che produce inizialmente sul pubblico.
Ai gesti misurati degli interpreti fa da sfondo una scenografia altrettanto rigorosa, di ascendenza euclidea, che riprende colonne e capitelli classici – a sua volta ripresi dal Rinascimento e dai successivi movimenti artistici italiani – per riportarli a una stilizzazione ideale.
In scena va insomma una “lezione sulla geometria delle passioni umane”, come ha scritto il New York Times: incentrata sul triangolo costituito da Amore, Virtù e Destino, nei cui rapporti di forza è il primo elemento a risultare preponderante.
Oltre alla voce, naturalmente, che sotto la direzione minimalista di Wilson acquista la massima importanza espressiva.