Fino al 14 giugno, il rodigino Palazzo Roverella mette in scena l’irruzione della Modernità nella piega tra due secoli. Con una mostra densa di inquietudini e illuminazioni.
Il fragile confine che separa l’epoca ottocentesca dal secolo appena trascorso può rivelarsi un territorio insidioso. Eppure, Il demone della modernità. Pittori visionari all’alba del secolo breve, la sorprendente retrospettiva che Rovigo dedica ai protagonisti di un tempo storico così delicato, getta nuove luci, e inedite ombre, sulla detonazione moderna occorsa nello spazio tra due secoli.
Inaugurata il 14 febbraio e curata da Giandomenico Romanelli, l’esposizione raccoglie alcune tra le personalità artistiche portavoce dell’intricato panorama sociale ed emotivo d’inizio Novecento. Impregnati della carica Simbolista ereditata dal XIX secolo, ma sensibili alle spinte di una nuova era, gli inconsapevoli protagonisti della Modernità sanno coglierne i tratti essenziali. Il senso di spaesamento, l’attrazione per le dinamiche inconsce e oscure che convivono con un vitalismo sfrenato e sensuale, la dilagante passione per l’immagine metropolitana e le visioni apocalittiche, anticipatrici dell’imminente catastrofe bellica, riempiono le opere disposte lungo un percorso tematico.
Le apparizioni quasi allucinatorie di Gustave Moreau e Odilon Redon sono un punto di riferimento per i luciferini soggetti di Max Klinger e Franz von Stuck, mentre l’ambigua coesistenza di angeli e demoni, tra illuminazioni di spirito e discese agli inferi, occhieggia dalle opere di Mirko Rački, Karl Wilhelm Diefenbach, Felicien Rops, Sascha Schneider. Il fervore cupo e carnale, compendio di impulsi mistici e demoniaci, contagia anche le generazioni di artisti italiani, presenti in mostra grazie ad alcuni esponenti di spicco come Alberto Martini e Guido Cadorin, il cui grafismo secco e lucido sfocia in uno stile autonomo rispetto al chiaro referente della scuola tedesca.
Ed è proprio l’espressionismo di matrice nordica ad ispirare la preziosa produzione di Gennaro Favai, finalmente sdoganato dall’etichetta del tardo vedutismo. Autore di una serie di tele e disegni dedicati ai grattacieli di New York e realizzati nel 1930, Favai ben sintetizza l’afflato metropolitano che, dagli Anni Venti in poi, anima l’approccio alla quotidianità, trovando un forte corrispettivo nella cinematografia e nelle arti visive. Condensando, così, le pulsioni di segno opposto che questa mostra riesce a tratteggiare con grande efficacia.