Una mostra allo Smithsonian's Anacostia Community Museum ripercorre il periodo tra il 1963 e il 1975 nella capitale statunitense, quando la società cominciò a sviluppare una coscienza civile nei confronti delle minoranze. A cominciare dalla comunità afro-americana.
“Preferiamo morire in piedi, piuttosto che continuare a vivere in ginocchio”: suonano più o meno così, i versi della canzone Say It Loud, I’m Black and I’m Proud che James Brown cantava nel 1968. Questi e altri brani dell’epoca – ovvero, dall’inizio degli anni Sessanta a metà dei Settanta – testimoniano anche a livello popolare un fermento nazionale, un cambiamento nelle coscienze degli statunitensi.
Un periodo di tumulti, di proteste e agitazioni che oggi vengono raccontati in una mostra allo Smithsonian’s Anacostia Community Museum, istituzione museale e centro di ricerche a Washington dedicato in particolare alla storia della comunità afro-americana.
Twelve Years That Shook and Shaped Washington: 1963–1975 racconta proprio quel decennio che, per quanto movimentato e instabile era nella percezione dell’epoca, si è rivelato fondamentale per “costruire” la Washington di oggi: una città multietnica, dotata di servizi pubblici per tutti e una coscienza ambientale sviluppata, animata da comunità attive a livello di quartiere e una scena artistica di tutto rispetto.
Perché vale la pena, oggi, ricordare passo per passo le lotte sostenute da ispanici e afro-americani, donne e omosessuali, disoccupati e indigenti per vedere riconosciuti i loro diritti civili basilari, ormai 50 anni fa? Si spera che “guardare indietro a quel momento di rapidi cambiamenti e all’impatto che hanno avuto possa offrire ai cittadini un indirizzo, una condotta proprio ora che la nostra città si trova nuovamente in un periodo di trasformazioni radicali”, ha saggiamente spiegato la direttrice del museo, Camille Akeju.