Nelle settimane in cui migliaia di donne sono scese per le strade degli Stati Uniti a manifestare per l'uguaglianza di genere, indossando un berretto rosa fatto a mano, c'è chi ha scelto di indagare l'origine del legame esistente tra questo colore e l'universo femminile. Andando a ritroso nel tempo, fino al rococò...
Dopo un autentico boom sul web, legato anche al contributo dei social, il Pussyhat Project fondato da Krista Suh e Jayna Zweiman ha superato la dimensione di fenomeno online, conquistando lo scenario offline. La conferma viene dalle manifestazioni che si sono svolte negli Stati Uniti nell’ultimo periodo, nel corso delle quali la massiccia presenza femminile è stata accompagnata dalla scelta di migliaia di donne di indossare un cappello rosa, secondo un indirizzo nato in seno al progetto.
Questo semplice indumento è infatti divenuto il simbolo di una campagna, a suo modo rivoluzionaria, che tra gli altri obiettivi mira alla rivalutazione del ruolo degli oggetti creati con le proprie mani, impiegando strumenti come i classici ferri per lavorare la lana o tecniche come l’uncinetto. L’elemento unificante di questi copricapo, indipendentemente dal modello e dalla modalità di esecuzione, è inoltre il colore rosa, una nuance associata da tempo all’universo femminile.
Tra chi lo odia e chi lo ama, c’è chi ha scelto di indagare in profondità l’origine di questo binomio, svelando non poche curiosità sulle ragioni che legano questo colore proprio alle donne. Nonostante risulti complesso tracciare una storia dettagliata, in questa analisi si può individuare in Madame de Pompadour una delle figure di riferimento. In un’Europa sedotta dal rococò, infatti, si deve a lei la predilezione per gli abiti di colore rosa, destinati a fare tendenza, e la creazione da parte della Manufacture nationale de Sèvres di un servizio di porcellana contraddistinto dalla nuova nuance Rose Pompadour.
Nel corso del secolo successivo, era ritenuto “perfettamente maschile” indossare vestiti e dettagli nelle tonalità più chiare del rosso, rosa incluso, mentre a partire dai primi decenni del XX secolo una divisione netta iniziò a farsi strada. Al prevalente impiego del bianco, tinta neutra che aveva contraddistinto l’infanzia nell’Ottocento indipendentemente dalla sessualità, le logiche di branding, che si manifestano in particolare dal dopoguerra in poi, concepirono l’assegnazione del rosa per le bambine e del blu per i maschi.
Questo processo, in modo lento e graduale, si è imposto nell’immaginario collettivo a tal punto che oggi risultata ampiamente metabolizzato. Come tutti i “simboli”, tuttavia, anche il colore rosa associato alla femminilità è stata oggetto di aspre critiche negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, quando l’avvio della contestazione femminista mise in discussione con forza tutti gli stereotipi di genere. In un’epoca contrassegnata da fenomeni di sessismo in vari campi e in numerose zone del pianeta e dalla ripresa dei movimenti legati al femminismo, anche la scelta compiuta dalle ideatrici del Pussyhat Project ha diviso l’opinione pubblica.
Il “rosa”, insomma, continua a tenere acceso il dibattito.