Fino al 2 aprile, il DAM Deutsches Architektur Museum di Francoforte ospita "SOS Brutalism. Save the concrete monsters", prima indagine globale sull'architettura brutalista realizzata tra gli anni Cinquanta e Settanta. Che proprio nel nuovo millennio va incontro a critiche e persino piani di abbattimento degli edifici più rappresentativi.
Non celare il calcestruzzo – béton brut – e rivelarlo invece nella sua crudezza, lasciargli esprimere la sua “forza nuda”, esaltarne l’identità: furono questi i principi chiave dell’architettura brutalista, la corrente emersa a metà del Novecento e successivamente affermatasi come stile espressivo di portata globale.
Associato anche alla figura di Le Corbusier, il termine “brutalismo” si lega agli architetti britannici Alison Smithson e Peter Smithson, che per primi lo utilizzarono in un articolo pubblicato nel 1953; si tratta dei progettisti del complesso londinese Robin Hood Gardens, la cui demolizione è stata avviata lo scorso anno, non senza contestazioni e dibattiti. Questo movimento venne in seguito formalizzato dal critico Reyner Banham, autore del volume New Brutalism: Ethic or Aesthetic, del 1966.
Apprezzati quanto detestati, sperimentali ma non per questo estranei a definizioni che ne sottolineano la “mostruosità”, gli edifici brutalisti stanno conoscendo nella nostra epoca una fase complessa. Spesso oggetto di culto sui social, dove conquistano consensi per la loro fotogenia o per lo stato di fatiscenza in cui versano, sono in molti casi a rischio demolizione.
Per salvare e far conoscere questo patrimonio prima che sia troppo tardi, è stata lanciata la campagna online #SOSBrutalism, veicolata attraverso un database che riunisce più di mille progetti realizzati in tutto il mondo. Oltre il web, il progetto è attivo anche offline con iniziative come la mostra SOS Brutalism. Save the concrete monsters, aperta al DAM – Deutsches Architektur Museum di Francoforte fino al 2 aprile.
Per la prima volta, questa esperienza fondamentale della storia dell’architettura del secolo scorso è stata posta al centro di un’indagine globale. Esposti modelli rari, fotografie, documenti e miniature in calcestruzzo colato messe a punto dalla Technische Universität di Kaiserslautern, per ricostruire valori ed esiti di un’estetica capace di oltrepassare i confini nazionali. Il Brutalismo è stato infatti declinato in decine di architetture – musei, scuole, strutture politiche e amministrative, complessi residenziali, edifici per lo sport e per il culto – dal Giappone al Brasile, dall’ex Jugoslavia ad Israele, fino all’Italia. La mostra presenta esemplari realizzati in 12 aree territoriali e analizza l’arco temporale compreso tra il 1953 e il 1979.
Curata da Oliver Elser, SOS Brutalism è accompagnata da un catalogo che ricostruisce l’ampio panorama internazionale, inserendo anche esempi poco noti.
[Immagine in apertura: IACP (Carlo Celli / Luciano Celli), Rozzol Melara, Trieste, 1969–1982. Photo by Paolo Mazzo, 2010]