Cosa succederebbe se si volesse osservare l'arte contemporanea a partire dalle opere dei nativi americani? Una mostra in corso all'American Indian Museum di New York riunisce autori per i quali i concetti di tradizione e di trasformazione sono inestricabilmente intrecciati.
Tratteggia un ritratto corale della scena contemporanea americana, la mostra Transformer: Native Art in Light and Sound, ospitata fino al 6 gennaio 2019 all’American Indian Museum – George Gustav Heye Center di New York.
Con 10 artisti protagonisti e 9 installazioni realizzate grazie all’impiego di una varietà di media – tra cui luci, proiezioni digitali e tecnologie audio innovative – la collettiva sonda in profondità la scena artistica dei giorni nostri. Vengono infatti presentati autori nativi americani, che non mancheranno di stupire svelando al pubblico sorprendenti connessioni tra culture indigene e le nuove frontiere dell’era digitale.
È il caso, tra gli esempi possibili, del canadese Jordan Bennett, presente con l’installazione audio Aosamia’jij—Too Much Too Little. Realizzata nel 2017, riesce a originare una sorta di “paesaggio sonoro digitale”, formato da una serie di registrazioni raccolte all’aria aperta e nella sua stessa casa; nel percorso espositivo questi suoni vengono diffusi attraverso 5 altoparlanti incorporati in grandi armadi lignei e sono accompagnati dalle fotografie scattate nel 1931 dall’antropologo Frederick Johnson, nel corso della sue esplorazione nella vita quotidiana della comunità Mi’kmaq.
Un altro esempio è offerto da Julie Nagam, che per l’occasione ha creato l’installazione immersiva Our future is in the land: if we listen to it, nella quale una sofisticata traccia audio, con suoni tipici di una foresta, è stata combinata con le voci di narratori indigeni che raccontano di legame con il paesaggio e la Natura. In questo caso, l’obiettivo è dimostrare come “la nostra sopravvivenza e il nostro futuro come specie umana siano legati alla conoscenza indigena della terra“.