La realtà virtuale e quella aumentata hanno espanso il concetto stesso di mondo sensibile. Le tecnologie digitali ci stanno permettendo di ampliare il nostro bagaglio di percezioni ed esperienze oltre l'immaginabile. Ma tutto questo è un bene? Prima ancora degli scienziati, sono gli artisti a essersi posti il problema: una mostra in corso a Magonza, in Germania, fa il punto sulle riflessioni a cui giunge l'arte contemporanea quando pone all'attenzione delle nostre coscienze una problematica sempre più attuale: il rischio che la nostra dimensione fisica, concreta, perda progressivamente di qualunque senso.
Se non siete proprio giovanissimi, è facile che alle parole Virtual Insanity vi si affacci alla mente un ritornello, cantato dalla voce acuta di Jamiroquai: era l’anno 1996 e il suo singolo imperversava sulle radio e i canali televisivi musicali di tutto il mondo.
Il pubblico era rimasto catturato da una visione del futuro inquietante, a dispetto del ritmo travolgente della canzone. Sia musicalmente sia visivamente, nel relativo videoclip, Jamiroquai aveva infatti tradotto una sensazione che iniziava a essere diffusa, quella di un progresso tecnologico che stava cambiando il modo stesso in cui viviamo a grande velocità; come se un tappeto ci venisse tirato da sotto i piedi, immagine suggerita nello stesso video.
Virtual Insanity è anche il titolo di una mostra in corso – fino al prossimo 18 novembre – alla Kunstahalle di Magonza, che proprio al tema già affrontato da Jamiroquai ormai 20 anni fa è dedicata: gli “effetti collaterali” che stiamo sperimentando con la nuova era digitale. Il futuro è ormai arrivato e, tra realtà aumentata e virtuale, alterazioni ed estensioni della nostra percezione, ormai sta diventando sempre più difficile definire ciò che siamo, dove “inizia e finisce” la nostra dimensione.
Per quanto il progresso tecnologico sia alla base della storia stessa dell’umanità, giunti a questo punto dell’evoluzione ci sorge a volte il dubbio che siano i computer e i device a “condurre” le nostre vite, piuttosto che il contrario.
Dal momento che, allo stato attuale, molti degli effetti dell’era digitale sulla mente umana non sono ancora stati sufficientemente studiati, l’esposizione si rivolge all’arte contemporanea nel tentativo di trovare, se non delle risposte, almeno un indirizzo alle problematiche che stanno emergendo ai nostri giorni.
Raccogliendo dati e storie, sviluppando scenari, gli artisti in mostra danno voce – e non soltanto – alle congetture che gli scienziati stanno giusto verificando: più ci immergiamo in una realtà immateriale, fatta di bytes e pixel, più la nostra presenza fisica, “analogica” nel mondo perde di rilevanza. Cosa ci portiamo di noi stessi, allora, nel mondo virtuale? E una volta entrati, riusciremo sempre a uscirne?
Sono pensieri inquietanti, certo, ma ormai non più fantascientifici. Per questo, l’arte fornisce un contributo indispensabile per arginare il rischio di raggiungere la “follia virtuale” collettiva.
[Immagine in apertura: Refrakt, Molly Soda, Nicole Ruggiero, Slide to Expose, 2017, installation view. Courtesy Refrakt]