Giunge dagli Stati Uniti, a sera inoltrata, la notizia della morte di Robert Morris, scomparso all'età di 87 anni. Scultore e critico, riuscì a innovare profondamente le discipline plastiche del secondo Novecento, mettendo in discussione i principi poetici e le tecniche di realizzazione utilizzate fino a quel momento.
Se c’è una tendenza, nell’arte contemporanea del secondo dopoguerra, che è davvero difficile presentare al grande pubblico – valorizzandola – sicuramente è la Minimal Art. I maggiori autori di questa corrente si contano sulle dita di una mano (Carl Andre, Donald Judd, Sol LeWitt, Robert Morris, Dan Flavin) e la nascita e il tramonto del movimento – che tale nemmeno fu, visto che gli autori non si riconobbero mai in una definizione univoca – avviene nell’arco di un decennio, tra gli anni Sessanta e i Settanta.
Se di quei 10 anni scarsi il grande pubblico conosce perfettamente la Pop Art, e poco o nulla del cosiddetto minimalismo, non si può dire però che questa esperienza artistica sia passata senza lasciare il segno. Anzi.
Ricordare oggi Robert Morris, scomparso mercoledì 28 novembre a Kingston (nello Stato di New York) all’età di 87 anni, significa ripercorrere seppure brevemente la storia della scultura contemporanea. Una storia tormentata, se vogliamo utilizzare un termine “drammatico”, che passa attraverso una messa in discussione delle stesse basi della disciplina. O meglio, un “ritorno all’ordine”, alle “strutture primarie” – Primary Structures si intitolava la mostra del 1966 al Jewish Museum di New York, che sancì l’esistenza della Minimal Art come fenomeno d’avanguardia – di tale spietata coerenza da passare per “durezza”.
Perché Robert Morris prese il principio primo del dadaismo – l’elevazione ad arte di oggetti “anestetici”, cioè assolutamente comuni se non anonimi – e lo elevò a sistema.
Come spiegare al grande pubblico che, quando nel 1964 Morris espose alla Green Gallery le sue “sculture” fatte di compensato dipinto di grigio – meri parallelepipedi variamente disposti nello spazio – non intendeva rappresentare alcunché?
Non erano rappresentazioni di altre realtà, non simboleggiavano neppure alcun concetto o stato d’animo: esistevano in sé e per sé. O meglio, esistevano ed erano arte perché (e finché) il pubblico vi interagiva.
Difficile spiegarlo, così a distanza, se già i critici dell’epoca faticarono a capire cosa avevano di fronte. Il concetto rivoluzionario, nella sua banalità, che il pittore Frank Stella – precursore della Minimal Art – ha forse sintetizzato meglio: “Quello che vedi è quello che vedi“. Cioè, non c’è altro da vedere.
All’epoca, si parlò di un’arte noiosa. E forse c’è del vero, in questa percezione, se gli stessi artisti che avevano dato vita alla Minimal Art finirono per discostarsene progressivamente: Sol LeWitt arrivò all’arte concettuale, Donald Judd e Carl Andre presero già negli anni Settanta a concepire vere e proprie installazioni, spesso in esterni e su grande scala.
Lo stesso Robert Morris, che aveva concettualizzato l’estetica “minimal” nelle sue Notes on Sculpture del 1966, tre anni dopo pubblicava una ulteriore “nota” aprendo la sua scultura – come farà anche nella pratica – a materiali differenti e soprattutto non “anonimi”, che quindi davano vita a composizioni più libere degli elementi scultorei: Morris passerà dal legno e l’acciaio al feltro, a cascami di materia con qualità tattili molto pronunciate.
Così, forse, si arriva a spiegare agilmente la vera, imprescindibile eredità culturale di Morris e della Minimal Art: l’aver fatto tabula rasa, letteralmente, di qualsiasi concezione e pratica precedente; con un rigore matematico – non per nulla tutto si basava su griglie e forme geometriche – che equiparava la bellezza alla purezza, non solo delle linee, ma soprattutto degli intenti. Morris è stato il cantore della verità dell’arte, della scultura che rappresenta se stessa e nulla più, e che per questo da lì è stata libera di conquistare davvero lo spazio. Di modificarlo, di “attivarlo” (spesso mostrando una vocazione all’arte pubblica, non a caso). Entrando in relazione con lo spettatore – si pensi alla Land Art – alla pari, perché lo spettatore faccia esperienza reale della scultura e delle proprie stesse percezioni.
[Immagine in apertura: Robert Morris, Neo Classic, 1971, still da video]