400 libri di Gabriele Basilico donati al Politecnico di Milano

<p>Era il 1963 quando <a href="https://arte.sky.it/news/mostra-catania-fotografia-gabriele-basilico" target="_blank">Gabriele Basilico</a> scelse di iscriversi alla facoltà di Architettura del <a href="https://arte.sky.it/news/archivio-gianfranco-ferre-politecnico-milano" target="_blank">Politecnico di Milano</a>, ben prima di essere conosciuto come uno dei principali maestri della fotografia contemporanea italiana ed europea. </p> <h2>IL RAPPORTO TRA BASILICO E IL POLITECNICO DI MILANO</h2> <p>Nel solco di un profondo interesse per le architetture e i territori urbanizzati, nonché per il dialogo tra gli individui e lo spazio urbano, Gabriele Basilico si laurea in Architettura nelle aule del Politecnico nel 1973. Nonostante la carriera da architetto non abbia mai preso il via, il legame con l’ateneo rimane forte nel corso degli anni, come dimostrato dai numerosi seminari di cui fu protagonista.</p> <p>La donazione di quattrocento libri alla Biblioteca Bovisa Candiani da parte del suo archivio rinsalda questo rapporto. Oggi, 12 ottobre, alle 18, nella sede in via Durando 10, saranno presentati i volumi destinati all’ateneo, parte della collezione che comprende testi fondamentali per la formazione universitaria di Basilico e pagine che rimandano alle sue passioni e alle sue ricerche.</p> <h2>MILANO SECONDO GABRIELE BASILICO</h2> <p>Il fotografo “misuratore di spazi”, come amava definirsi, fu particolarmente legato non solo al Politecnico, ma anche a Milano, sua città d’origine, alla quale dedica numerosissimi scatti che ritraggono il passare del tempo e i cambiamenti intercorsi nel tessuto urbano. Basti pensare a <em>Milano. Ritratti di Fabbriche </em>(1981), le cui fotografie furono esposte al PAC nel 1983. In questa serie Basilico descrive la trasformazione del capoluogo lombardo in <a href="https://arte.sky.it/news/libro-fabbriche-fotografia-gabriele-basilico" target="_blank">capitale postindustriale</a>, prediligendo come di consueto il rigore dello stile documentaristico per raccontare al meglio il lunghissimo processo di interazione tra l’essere umano e lo spazio costruito. Un elemento inconfondibile del suo stile, diventato iconico.  [Immagine in apertura: Foto Federico Brunetti. Courtesy Politecnico di Milano]</p>

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Il clamoroso caso del dipinto di Vermeer che non è un Vermeer

<p>Non sembra aver tradito le aspettative che la accompagnavano la mostra <em><a href="https://arte.sky.it/news/national-gallery-washington-johannes-vermeer-mostra" target="_blank">Vermeer’s Secrets</a></em>, inaugurata da pochi giorni alla <a href="https://arte.sky.it/news/artle-national-gallery-washington" target="_blank">National Gallery of Art di Washington</a> e visitabile fino all'8 gennaio 2023. Come suggerisce il titolo, anche le opere dei riconosciuti maestri dell'arte globale, seppur oggetto di studi e approfondimenti da parte di generazioni di specialisti e storici, sono sempre in grado di rivelare segreti e svelare aspetti sconosciuti. E questo è precisamente quanta sta accadendo con uno dei dipinti esposti nel museo statunitense.</p><h2>LA RIATTRIBUZIONE DEL DIPINTO DI VERMEER </h2> <p>Nel corso della conferenza stampa che ha preceduto l'apertura della rassegna, sono stati resi noti gli esiti delle ricerche condotte da un team interdisciplinare di curatori, conservatori e ricercatori sulle opere incluse nel percorso di  <em>Vermeer’s Secrets.</em> A emergere, in particolare, è la riattribuzione del dipinto <em>Girl with a Flute</em>: a realizzarlo, secondo l'équipe in questione, non sarebbe stato Vermeer in persona, come fin qui ritenuto, ma un suo stretto collaboratore. Una rivelazione che ha un duplice rilievo: a cambiare, infatti, non è "solo" la paternità dell'opera. I riflessi della scoperta si estendono anche alle convinzioni di lungo corso che fin qui hanno accompagnato la reputazione dell'<a href="https://arte.sky.it/news/scoperta-cupido-vermeer-mostra" target="_blank">artista</a>, da sempre ritenuto un "genio solitario". Avrebbe, invece, condiviso almeno parte del lavoro con alcuni assistenti, figure da lui formate e guidate.</p> <h2>I SEGRETI DI VERMEER SVELATI A WASHINGTON</h2> <p>Come precisa in una dichiarazione Kaywin Feldman, che dirige la National Gallery of Art: "<em>L'esistenza di altri artisti che lavoravano con Johannes Vermeer è forse una delle scoperte più significative sull'artista degli ultimi decenni. Cambia radicalmente la nostra comprensione di Vermeer</em>". Un risultato raggiunto, prosegue la direttrice, attraverso "<em>decenni di ricerca e utilizzando tecnologie scientifiche avanzate</em>". Il riferimento, in quest'ultimo caso, è alla metodologia di lavoro dei ricercatori, che, approfittando delle chiusure del museo durante le fasi acute dalla pandemia, hanno esaminato quattro dipinti del museo di (e attribuiti a) Johannes Vermeer, confrontando mezzo secolo di studi tecnici sulla sua produzione artistica. Al centro della loro indagine un obiettivo preciso: capire cosa rende un Vermeer un Vermeer. Oltre alla riattribuzione di <em>Girl with a Flute</em>, quest'attività ha ad esempio evidenziato che il dipinto <em>Girl with Red Hat</em>, oggi considerato risalente al 1669 circa, rappresentò un punto di svolta nella carriera del pittore: per la sua realizzazione, l'autore sperimentò nuove tecniche, adottò colori vivaci e un modo più audace per stenderli. Scelte che anticipano gli esiti della sua fase creativa matura. Confrontando infine i risultati di diverse tecniche scientifiche con l'analisi microscopica, si fa largo la convinzione che Vermeer avrebbe avuto l'abitudine di iniziare i suoi dipinti con ampie stesure di vernice di fondo, applicata rapidamente per formare una "solida base" adatta alla successiva definizione dei dettagli. </p> <p>[Immagine in apertura: Studio of Johannes Vermeer, <em>Girl with a Flute</em>, c. 1669/1675. Oil on panel, painted surface: 20 x 17.8 cm (7 7/8 x 7 in.), framed: 39.7 x 37.5 x 5.1 cm (15 5/8 x 14 3/4 x 2 in.) National Gallery of Art, Washington, Widener Collection]</p>

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