Le leggende del jazz in una serie di fotografie
LETTERATURA
Un nuovo volume racconta, attraverso una serie di scatti immortali, le grandi leggende del jazz. Il libro (in uscita il 22 settembre per Mimesis) si sofferma sulle analogie tra fotografia, musica e improvvisazione.
Qual è il rapporto tra fotografia e
jazz? Come si cattura lo spirito dell'improvvisazione? È questo il
quesito dal quale prende il via la nuova pubblicazione firmata da
Roberto Polillo, fotografo che negli anni Sessanta e nei primi anni
Settanta ha raccontato con i suoi scatti più di un centinaio di
concerti per diverse riviste di settore, immortalando alcuni dei più
grandi musicisti del genere.
Dopo aver viaggiato in Italia e
all'estero, esposte in numerose mostre e fiere d'arte, le fotografie
di Polillo saranno presto raccolte in volume edito da Mimesis: un
catalogo imperdibile per ogni appassionato di jazz e di fotografia.
MUSICA DA ASCOLTARE E “DA VEDERE”
In uscita il 22 settembre, il libro –
dal titolo Fotografare il jazz. Il volto, la musica,
l'improvvisazione (nell'immagine in apertura un dettaglio della
copertina) – abbraccia due decenni di carriera dell'artista,
offrendo al lettore una folta selezione di immagini realizzate
durante le esibizioni live di “mostri sacri” di questo genere
musicale: John Coltrane, Louis Armstrong, Miles Davis, Bill Evans,
Keith Jarrett, Thelonious Monk, Charles Mingus, Max Roach ed Elvin
Jones sono solo alcuni dei maestri catturati dalla macchina di
Polillo. Una sequenza di foto nelle quali le performance di
queste leggende rivivono ad anni di distanza, condensando tutta
l'energia scaturita da quelle storiche improvvisazioni.
LE PAROLE DI ROBERTO POLILLO
“Per una dozzina d’anni, a
partire dal 1962, ho fotografato i principali concerti di jazz, a
Milano e dintorni”, racconta Polillo nelle pagine del volume.
“Ero al seguito di mio padre, Arrigo Polillo, che utilizzava le
mie foto per 'Musica Jazz', la rivista che aveva fondato assieme a
Giancarlo Testoni subito dopo la Seconda guerra mondiale e della
quale era stato, per quasi quarant’anni, prima redattore capo e poi
direttore responsabile. Molti di quei concerti erano organizzati
proprio da mio padre che, aiutato da un gruppo di amici appassionati
di jazz, si occupava di tutto: accoglieva i musicisti all’aeroporto,
li accompagnava in albergo e spesso a cena, li presentava agli
spettatori in teatro. Si assicurava, insomma, che tutto filasse
liscio”.
“Credo che la fotografia jazz non
debba solo essere considerata come uno strumento di documentazione di
una performance, ma potrebbe – forse dovrebbe – essere anche
considerata una sorta di rappresentazione visiva della musica stessa,
che in questo modo può essere meglio compresa e apprezzata”.