È lo Stedelijk Museum di Amsterdam a ospitare la più grande retrospettiva di sempre, nonché la prima mostra postuma, dedicata all'arte di Ulay. Scomparso lo scorso marzo, proprio mentre lavorava con i curatori a questo importante progetto espositivo, l'artista viene raccontato attraverso gli interventi iconici sviluppati con Marina Abramović e con le opere realizzate da solo, che lo consacrano tra i pionieri della sperimentazione fotografica, della performance e della body art.

Osservando dal punto di vista dell'arte l'anno che tra poco più di un mese volgerà al termine, è impossibile non evidenziare i gravi lutti che si sono susseguiti fin dal primo trimestre, alcuni dei quali causati dalla pandemia. Nel 2020 abbiamo dovuto dire addio ad autorevoli personalità che si sono distinte nel mondo della musica, del cinema, delle arti visive, del design e dell'architettura, del teatro, della letteratura, del fumetto, della storia e critica d'arte. Si tratta di figure che con le loro opere e il loro pensiero continueranno a ispirare e guidare le nuove generazioni di studiosi e artisti. A celebrarne la memoria contribuiranno anche i progetti espositivi, che getteranno nuova luce sulla loro produzione e sulla loro visione.È questo l'obiettivo che si prefigge Ulay was here, la più grande retrospettiva di sempre, nonché la prima mostra postuma di rilievo internazionale, dedicata all'artista tedesco scomparso a Lubiana, all’età di 76 anni, all'inizio del 2020. Appena inaugurata allo Stedelijk Museum di Amsterdam, la rassegna monografica esplora tutti i campi in cui il talento artistico di Ulay si è espresso, dalla fotografia alla performance, fino alla body art, sia da solo che con l'ex compagna Marina Abramović, con la quale ha lavorato per dodici anni. Il percorso include molte opere mai viste prima e documenta il peculiare approccio sperimentale e intransigente dell'autore, nonché l'impegno verso le urgenze sociali della nostra epoca.L'ARTE DI ULAY La mostra, alla quale lo stesso Ulay aveva iniziato a lavorare con il team curatoriale prima della morte, avvenuta lo scorso mese di marzo, è scandita da circa 200 opere. A essere esaminata è l'intera produzione dell'artista secondo quattro temi chiave. Si procede dalla sua ricerca in ambito performativo, e sugli aspetti performativi della fotografia, all'indagine sull'identità di genere e sul corpo come medium; si passa quindi al suo impegno verso temi sociali e politici per approdare alla relazione con la città Amsterdam, in cui ha vissuto e lavorato per quattro decenni.Visitabile fino al 18 aprile prossimo, Ulay was here propone una selezione di fotografie, molte delle quali realizzate tramite Polaroid, sculture, proiezioni, registrazioni video, documentazioni fotografiche di performance e altri materiali d'archivio. Consente di individuare le traiettorie seguite in autonomia e in forma indipendente dall'artista, che non ha mai smesso di considerare il corpo come il centro della ricerca, fino al punto da spingersi verso "pericoli estremi". "Dato il crescente interesse per la performance art, è tempo di rivalutare la storia della disciplina e il background degli artisti che l'hanno plasmata. Ulay, anche durante i suoi anni di collaborazione con Marina Abramović, è stato una figura di spicco nella performance e nella body art sin dagli anni Settanta. Ha usato la sua identità e il suo corpo come mezzo", ha sottolineato Rein Wolfs, direttore dello Stedelijk Museum.[Immagine in apertura: Ulay, S'he, 1973–74, Original Auto-Polaroid, type 107, 8.5 x 10.8 cm. Courtesy ULAY Foundation]
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